I Palmenti nel Mediterraneo
I Palmenti del Mediterraneo
Intorno al III sec. a. C. l’economia della Magna Graecia era basata principalmente sulla produzione e sul commercio del vino. Nelle vallate del Bruzzano e del Buonamico era praticata la viticoltura, per la produzione di vini di qualità destinati all’esportazione. Tutta l’area è collinare (circa 250 metri sul livello del mare) caratterizzata da terreni sciolti, con terrazzamenti (le armacie) contenuti da muri a secco, talvolta costruiti con grosse pietre irregolari a forma triangolare, secondo l’uso pelasgico (Sculli – I vitigni autoctoni della Locride – pag. 34). Notevoli estensioni di vigneti erano nel territorio di Ferruzzano, in un’area di circa mille ettari, dove sono stati individuati 152 palmenti che affiorano a cielo aperto, usati fino a tempi recenti ed ora invasi dalla macchia mediterranea, utilizzati come abbeveratoi per gli animali o distrutti per lasciare i terreni liberi da arare e coltivare senza impedimenti. Il merito della ricerca scientifica dei palmenti va al prof. Orlando Sculli che ne ha censiti e catalogati 137, su circa settecento individuati in quell’area. (O. Sculli – I Palmenti di Ferruzzano – Archeologia del vino e testimonianze di cultura materiale in un territorio della Calabria Meridionale – Ediz. Palazzo Spinelli – 2002).
Ma il certosino lavoro del prof. Sculli è rivolto anche alla scoperta ed al recupero di ben 126 vitigni autoctoni della Locride, di straordinaria importanza per una lettura in chiave antropologica, storica ed economica del territorio reggino. (O. Sculli – “I vitigni autoctoni della Locride – Ed. cittàcalabria – 2004). Come il busto di Dioniso del VI sec. A. C. e le pinakes del tempio di Persefone in cui sono riprodotte scene di vendemmia e grappoli d’uva, anche i palmenti, manufatti per la vinificazione, legati ai vitigni impiantati in epoche remote su quelle colline, sono testimonianze da indagare per la conoscenza della storia, delle tradizioni popolari, delle trasformazioni del paesaggio agrario della Calabria meridionale, vocata alla vitivinicoltura ed all’esportazione di vini di qualità, come d’altronde altre zone (Sibari, Thurio, Laos) che producevano i vini più rinomati della Magna Graecia (Biblino e Caicino). I palmenti raccontano la storia di un mondo contadino e pastorale, legato ad una cultura trasmessa oralmente che non ha potuto lasciare molte testimonianze scritte; illustrano il lavoro e le tecniche di trasformazione dell’uva, dal periodo greco ai nostri giorni. Come attestano fonti storiche, il nome vero e proprio di “palmentum” (il termine deriva dal latino palmes palmitis, tralcio di vite o da “paumentum”, l’atto di battere, pigiare) lo si trova solo e con frequenza, in numerosi documenti medioevali del IX e X secolo dell’Italia meridionale, accanto a quello di “trapetum”, suo omologo per la preparazione dell’olio. Il palmento tipo era costituito da due vasche scavate nella roccia arenaria, una superiore (buttìscu) ed una inferirore (pinàci), comunicanti attraverso un foro. Dove non c’era roccia friabile, il palmento veniva costruito in muratura, impermeabilizzando le vasche con uno stato di intonaco di circa 3 cm. costituito da sabbia e calce mista a coccio pestato che faceva da collante. L’uva versata nel buttìscu, il cui foro veniva otturato con argilla, veniva pigiata con i piedi e lasciata riposare lì per un giorno ed una notte; quindi, eliminato il tappo, si lasciava defluire il mosto nel pinàci. Poi nella vasca superiore, attraverso delle scanalature ricavate nelle pareti laterali, veniva posizionata una grossa tavola piena di fori (foràta), per creare una strettoia (consu) in cui si versavano le vinacce per essere ulteriormente schiacciate da una specie di pressa costituita da un tavolone di legno di quercia forato (chjancùni) su cui poggiava un pesante tronco di legno (leva) che terminava a forcella, azionato da un tronchetto filettato (fusu), retto da una pesante pietra che fungeva da contrappeso (màzara). Infine il mosto veniva riposto nelle anfore vinarie.
Su qualche palmento è incisa una croce di sicura derivazione bizantina, riconoscibile dalla semifera con cui termina il braccio verticale. Le croci potrebbero essere state incise dai Bizantini su palmenti precedentemente scavati da altri che essi intesero utilizzare per la loro redditizia attività vitivinicola, come attestano i resti di anfore vinarie magnogreche, presenti sulle coste del mediterraneo fino a tutto il periodo della dominazione bizantina in Calabria. Dalla comparazione con i Palmenti di Ferruzzano, grazie al lavoro del Dr. Santino Pascuzzi,
del Prof. Anthony Bonanno, preside della Facoltà di Archeologia dell’Università di Malta, e della Soprintendenza ai Beni Archeologici di Malta, (prof. Anthony Pace e prof. Nathaniel Cutajar) è stata avviata un’analoga campagna di ricerca e catalogazione sul territorio dell’arcipelago maltese. Queste ricerche hanno portato ad una serie di importantissime scoperte di Palmenti nel territorio delle isole di Malta e Gozo, concentrati soprattutto in aree rurali come Xewkija, e in entrambi i lati di Mgarr ix-Xini canyon. Di particolare importanza storica e documentaria sono i Palmenti presenti nell’area di Misqa Tanks, nelle immediate vicinanze degli insediamenti neolitici di Mnajdra e Hagar Qim, cosa che suggerisce la presenza di un antico insediamento rurale di probabile epoca romana. Più recentemente, nel luglio 2008 sono stati scoperti altri importanti Palmenti nelle aree di It-Tafal ta’ Bingemma, Ta’ Lippija e La Ferla Cross molto simili come struttura e tecnica costruttiva a quelli presenti sul territorio di Ferruzzano, anche se differenti in alcuni particolari, ad esempio la presenza di un secondo foro di scolo. I palmenti Maltesi sembrano comunque appartenere ad una più recente datazione rispetto a quelli calabresi, anche se non esistono praticamente informazioni certe orali o scritte al riguardo. Si attendono comunque i risultati degli studi condotti su quelli di Mgarr ix-Xini e Misqa Tanks per avere ulteriori informazioni poiché la lettura di queste testimonianze di civiltà e culture indimenticabili poggia su elementi linguistici ed etno-antropologici e gli studi sull’evoluzione fisica e culturale dell’uomo, sulle sue attività quotidiane, sulle tecniche produttive e sul suo rapporto con l’ambiente circostante rientrano in una prospettiva antropo-archeologica che esige la convergenza anche di altre discipline, come la linguistica, l’epigrafia, la critica delle fonti scritte, l’etnologia, la geologia.